/ Archivio stagione 2010/2011

Edipo Re – da Sofocle a Pasolini

di Ulderico Pesce

con la collaborazione di Maria Letizia Gorga

CENTRO MEDITERRANEO DELLE ARTI

 

con

Maria Letizia Gorga, Maximilian Nisi,

Ulderico Pesce

 

consulenza artistica Anatolij Vasil’ev

rielaborazioni musicali a cura di Stefano de Meo

 

regia

Ulderico Pesce

 

Musiche tradizionali dei popoli Arberesh stanziati in Basilicata e Calabria, canti Grecanici del Salento

e della tradizione pastorale lucana

 

LA STORIA NARRATA

 

Giocasta e Laio generano un bambino nonostante l’oracolo di Delfi gli abbia detto: “Se avrete un figlio, ucciderà il padre e farà l’amore con la madre”. Impauriti prendono il nuovo nato, gli legano i piedini ad un bastone come un capretto e lo consegnano ad un pastore fedele che dovrà ucciderlo sulla montagna.

I piedi del bambino sono molto gonfi per via delle strette della corda ecco perché il pastore, per pietà, non lo uccide, e lo chiama Edipo, che in greco antico significa “piedi gonfi”.

Edipo gioca con gli antichi campanacci delle vacche che il pastore usa per la transumanza, cresce e diventa grande. Ad un incrocio, senza saperlo, ammazzerà suo padre, e si accoppierà con sua madre.

 

IL NOSTRO EDIPO

 

Un testo scritto da Sofocle, reinterpretando il mito, nel 425 a.C., come può essere messo in scena oggi cercando di non tradirlo ma di renderlo, nello stesso tempo, comprensibile ad uno spettatore moderno?

Come sottrarsi dal desiderio di contaminare il testo fonte di Sofocle con la rilettura cinematografica di Pasolini? E ancora, come fare a non lasciarsi influenzare dagli studi di antropologia, legati al tema, portati avanti da Ernesto De Martino e altri studiosi?

Per la rilettura del testo e la messinscena di Edipo Re siamo partiti da questi interrogativi.

 

LA MORTE DI LAIO: IL RE GIUSTO

 

L’Edipo di Sofocle comincia con la pestilenza che affligge la città. Laio, il re giusto, è morto da tempo, sembra che la memoria di questo re sia in parte svanita ed è solo il ritorno di Creonte da Delfi, mandato proprio da Edipo dall’oracolo per sapere cosa fare per stroncare i mali che hanno invaso Tebe, che riporta l’attenzione su Laio, il re giusto, con la battuta: “Per sconfiggere la morte che sconvolge Tebe si deve trovare l’assassino di Laio.”

Nella nostra messa inscena, viceversa, si inizia dal funerale del re Laio. Sarà proprio il pubblico che porterà a spalla la bara del re giusto. E’dalla morte di Laio che inizia il male, dalla sua uccisione avvenuta proprio per mano di Edipo. Con la morte del re Laio viene sconvolto un ordine cosmico dove l’armonia tra uomo, natura e spiritualità era totale, è questo sconvolgimento, provocato inconsapevolmente da Edipo, che porta la tragedia. La bara del re Laio nel nostro spettacolo starà sempre in scena e diventerà il letto dove Giocasta si accoppierà con Edipo, senza sapere che è proprio lei che lo ha generato, la stessa bara rappresenterà il luogo dove il pastore rivelerà ad Edipo la sua vera identità e quindi il suo passato. La bara diventa il simbolo di un passato e di un’identità del quale l’uomo moderno non può fare a meno. Più Edipo dirà di voler vivere nel presente dimenticando il passato e più si avvicinerà tragicamente ad esso.

Sulla bara del padre, Edipo, riconquisterà il suo “essere primo”, la sua identità, solo allora potrà ripartire un modello di vita comunitaria infranto da Edipo che vedeva in stretto contatto l’uomo, l’ambiente, il paesaggio, la spiritualità e la storia.

Si potrà obiettare che anche Laio ha la colpa di aver generato un figlio nonostante l’oracolo gli avesse predetto, e non vietato, che se avesse generato un figlio sarebbe morto per mano sua. Ma l’errore di Laio è un “dolce smarrimento provocato dall’amore per Giocasta” senza il quale errore non può partire la struttura del racconto.

 

Nella struttura narrativa sofoclea l’uccisione di Laio passa quasi in secondo piano rispetto all’incesto. Nella nostra messa in scena invece, riacquista importanza e centralità l’uccisione di Laio come la fine di un “mondo armonico”. Con Laio non solo muore un re giusto che riesce a governare in sintonia con la natura e il mondo degli Dei, ma muore “l’età dell’oro”, un’età arcaica, di tipo contadina e pastorale che viene sconfitta e distrutta dal mondo razionalistico di Edipo. Per dirla con le parole di Pasolini: “viene messo in crisi quel mondo contadino preindustriale dove i sentimenti umani si realizzavano con maggiore compiutezza rispetto ad oggi.”

 

LA FORZA DI ATTRAZIONE DEL POTERE

 

La forza di attrazione del potere è presente nel testo in maniera molto forte. E questa forza, che spinge l’uomo a voler occupare posti di rilievo all’interno delle istituzioni è cresciuta, dai tempi di stesura dell’Edipo, a dismisura e rappresenta oggi, una delle caratteristiche prime della nostra società. Pur di raggiungere il potere Edipo è disposto a tutto ma una volta divenuto re, le modalità del “comando” usate sono tiranniche, non democratiche. Il primo termine che Edipo usa per parlare alla folla, che si è riunita nel tempio a pregare il Dio affinché possa intercedere per sconfiggere la peste che miete morti nella popolazione, è: “calùmenos”, che in greco antico significa “il famoso”, “il primo fra gli uomini”. E’ già nel primo intervento che Edipo fa in pubblico, dove è già diventato nuovo re e marito di Giocasta, che si macchia di tracotanza, quella che i greci chiamavano yùbris.

In questo intervento dice al popolo di lasciarlo lavorare perché lui, in quanto “primo fra gli uomini e più famoso di tutti risolverà i problemi della Comunità.”

La considerazione che ha di se stesso e del suo potere è assolutistica, a Edipo non serve né l’opinione del popolo, né i consigli del Dio. Sarà proprio questa nuova impostazione del potere, frutto di una visione razionalistica, che lo annienterà.

 

LA RIMOZIONE DEL PASSATO E DELL’IDENTITA’

 

Sin dall’inizio della tragedia diventa chiaro che la pestilenza che affligge la Comunità è da attribuire all’uccisione di Laio. E’ il Dio che punisce, attraverso la pestilenza, la Comunità per non aver indagato e trovato il colpevole di quella morte. Tutta l’attenzione drammaturgica è quindi sulla ricostruzione di fatti che appartengono al passato. Edipo e Giocasta, a maggior ragione e sin dall’inizio avrebbero dovuto essere ossessionati dalla ricerca del passato, e invece sembrano più orientati a godere del presente. Sin dall’inizio i due nuovi regnanti avrebbero dovuto raccontarsi il loro reciproco passato invece non lo fanno, e quando alla fine della tragedia scopriranno la loro vera identità il “male è compiuto”. Edipo e Giocasta rimuovono il passato. Il nuovo re, infatti, potrebbe sin da subito, non appena viene a sapere che la colpa della tragedia che vive la Comunità è da attribuire alla mancata ricerca dell’assassino di Laio, indagare e invece l’azione della indagine sul passato è molto lenta e “deviata”. Edipo, nello stesso tempo, sa che lui stesso ha ucciso un vecchio su una carrozza, la sua stessa coscienza avrebbe dovuto spingerlo a chiedere dettagli sulla morte di Laio per fare un confronto. Avrebbe quantomeno dovuto chiedere a Giocasta, come farà invece solo alla fine della tragedia, quali fossero le fattezze di Laio.

Questa domanda, fatta immediatamente a Giocasta, avrebbe permesso sin dall’inizio ad Edipo di sapere se la sua vittima avesse avuto a che fare con Laio. Edipo non lo fa. Il presente da sfruttare è più appetibile rispetto ad un passato losco e poco chiaro.

Giocasta, a sua volta, invece di stimolarlo a ricostruire il passato e la sua identità, lo spinge a lasciar perdere, a vivere nel presente e godere la vita. La stessa Giocasta rimuove il passato della sua famiglia. Lei sa che l’oracolo aveva consigliato a Laio suo marito di non avere figli perché se ne avesse avuto uno “l’avrebbe ucciso e si sarebbe accoppiato con la madre”. Giocasta sa che un bambino, però, l’hanno avuto e l’hanno consegnato a un pastore per ucciderlo. Alla luce di un passato così tanto allarmante Giocasta, prima di unirsi a Edipo, avrebbe dovuto indagare sull’identità di Edipo.

Invece entrambi, figli del nuovo razionalismo, che li spinge a vivere del presente, come se fosse possibile vivere senza l’identità della memoria e del passato, sono assolutamente indifferenti alla conoscenza del reciproco passato. E’ la sola volontà di apparire che li governa, di primeggiare, pertanto la loro vita è intrisa di solo presente, il passato identitario è visto come un peso pertanto va rimosso.

Da questo punto di vista l’Edipo re è di una attualità sorprendente e si può definire la “tragedia” della mancanza di identità, del rifiuto dell’identità. Per Sofocle, però, non c’è futuro senza memoria e identità, pertanto drammaturgicamente costringe Edipo ad indagare sulla sua identità. Edipo, per sconfiggere la pestilenza che distrugge la comunità seminando morte, deve, secondo gli ordini dell’oracolo, trovare chi ha ucciso Laio. Ed ecco che la tragedia è organizzata in modo tale che Edipo, pur volendo rimuovere il passato e la sua identità dovrà, invece, riscoprirla, ritrovarla, perché ad uccidere Laio è stato proprio lui. Scoprendo l’assassino ritrova se stesso.

 

LA RICOSTRUZIONE DEL PASSATO, DELLA MEMORIA E DELL’IDENTITA’

 

Nella nostra messa in scena verrà data molta importanza alla ricostruzione dei segni di questa memoria. Edipo ricostruirà piano piano il proprio passato. Ma di che passato si tratta? Sappiamo che Edipo, appena nato, viene consegnato ad un pastore che lo porta, per ordine di Laio e Giocasta che lo hanno generato, sul monte Citerone per ucciderlo. Lo stesso pastore però, per pietà, lo farà vivere e lo alleverà. I primi ricordi di Edipo allora saranno quelli del latte, dei capretti e degli agnelli, dei suoni dei campanacci messi al collo delle pecore e delle mucche.

Sarà importante, pertanto, nella nostra messinscena, ricostruire la memoria del mondo pastorale e della transumanza per recuperarne gli oggetti più emblematici come gli antichi campanacci che, messi al collo delle vacche più alte e robuste, accompagnavano le bestie dalla montagna alle pianure sul mare. Si tratta di campanacci realizzati in ottone e rame, alti circa un metro, che venivano applicati al collo delle mucche più robuste, mucche capo-branco che avevano la capacità di portarsi dietro altre mucche durante il lungo viaggio della transumanza durante il quale dalla montagna scendevano verso il mare. Questi camapanacci venivano accordati in modo da emettere una nota precisa, così, il pastore della transumanza, attraverso i suoni di questi enormi campanacci accordati riusciva, anche di notte, a seguire il movimento delle bestie.

Tra gli elementi scenici che utilizzeremo, oltre alla bara del re Laio, ci saranno undici camapanacci appesi a corde di iuta. Recuperare la transumanza attraverso i suoi segni più autentici sarà uno degli intenti primi del nostro lavoro. Vorremmo addirittura avere la possibilità di far assaggiare al pubblico del formaggio affinché il percorso di Edipo di ricostruzione della propria identità, possa diventare, in parte, un percorso interiore del pubblico.

 

IL RUOLO DEL PASTORE E DEL SUO MONDO

 

Edipo, appena saputo da Creonte che un pastore assistette all’assassinio di Laio e riuscì a scappare salvandosi, avrebbe potuto far chiamare subito questo pastore fedele di Laio per chiedergli dettagli su come avvenne quell’assassinio. Quel pastore, nella tragedia, diventa il detentore della memoria e della verità. Edipo però chiede di parlare con molti per avere informazioni, ma questo pastore, lo evita sapientemente fino all’ultima scena quando poi, il confronto, diventa inevitabile. Edipo re per noi è la “tragedia dell’acquisizione del passato rimosso”. E infatti “il pastore fedele di Laio”, quando rivelerà tutta la verità ad Edipo, gli permetterà di riacquisire il passato.

 

L’USO DEL VERBO “EURISCO”

 

Sin dall’inizio della tragedia, come abbiamo visto, Edipo propone l’annientamento del passato ma è costretto a cercare l’assassino di Laio, pertanto è costretto a cercare nel passato. Il nuovo re quando parla del suo desiderio di cercare e sapere la verità usa il verbo eurìsco, un termine figlio della cultura razionalistica, nel senso che eurìsco, -sapere, cercare-, è come se dettasse un modo di sapere esterno a se stesso, come se ci fosse una tecnica del recupero del passato quasi esterna all’uomo. Questo verbo Edipo lo usa spessissimo durante tutta la tragedia a voler sottolineare che la sua indagine è fuori da sé, ed è di tipo tecnico, la sua indagine è da capo dello Stato, da commissario di polizia. Sofocle però fa andare avanti Edipo nella sua indagine fino a che scoprirà che l’uomo che cerca, l’assassino di Laio, è lui stesso. Il commissario di polizia che fa l’indagine è anche l’assassino.

A quel punto però, l’indagine, non è più tecnica, fuori da sé ma è interiorizzata al massimo. Ecco che allora Sofocle, ironia tragica, fa usare ad Edipo lo stesso verbo eurìsco ma al mediopassivo, vale a dire ekmatèin, ho indagato, ho saputo, ho trovato il passato, ho ricostruito la memoria. I risultati dell’indagine hanno portato Edipo a recuperare se stesso e la sua memoria.

 

EDIPO E LA SCELTA DI ACCECARSI

 

Quando Edipo viene finalmente a conoscenza di ciò che ha fatto, che ha ucciso il padre e si è accoppiato con la madre, ricostruendo nello stesso tempo la sua vera identità, potrebbe anche continuare a vivere e a regnare. La riacquisizione del passato però, non gli permette di essere indifferente alle colpe commesse. Ora Edipo ha un’identità precisa e il rispetto di questa identità lo obbliga ad una scelta estrema: l’accecamento e la scelta di vagare per sempre, di andare in esilio nel mondo. Edipo sceglie di girare da paese in paese per essere di insegnamento e far comprendere l’importanza del recupero del passato e dell’identità storica.

 

CANTI ARBERESCH E GRECANICI

 

All’interno dell’Edipo il coro ha prevalentemente un ruolo epico, non partecipa all’azione scenica, non la scatena, la commenta in modo lirico. E allora alcuni brani recitati dal coro sono diventati canti che vanno ad intrecciarsi con altre canzoni e musiche che abbiamo prelevato dalla tradizione arberesche, grecanica e del mondo pastorale lucano.

Gli albanesi, che a partire dal 1400 abbandonarono l’Albania, perché i Turchi li costringevano a convertirsi alla religione musulmana, emigrarono in molte regioni dell’Italia del Sud dove hanno mantenuto la propria cultura e il rito greco-bizantino. L’emigrazione albanese, meglio conosciuta come diaspora arberesche, è durata quattrocento anni. Noi siamo andati in questi piccoli paesi dove vivono ancora queste popolazioni per recuperare gli antichi canti. Buona parte della colonna sonora dello spettacolo è caratterizzata da canti della diaspora arberesche.

Altre musiche scelte per la messinscena sono grecaniche, vale a dire prelevate dalla tradizione di quei paesi dove, a partire dal VI sec. a.C. si trasferirono coloni greci e dove ancora si canta in greco antico e altre ancora le abbiamo ritrovate nella tradizione lucana dei pastori della transumanza.