dal romanzo di Andrea Camilleri

riduzione e adattamento teatrale Andrea Camilleri e Giuseppe Dipasquale

Teatro Stabile di Catania

scene Antonio Fiorentino
costumi Gemma Spina
musiche Massimiliano Pace
luci Franco Buzzanca
foto di scena Tommaso Le Pera

con
Pino Micol, Giulio Brogi, Mariella Lo Giudice,
Gian Paolo Poddighe


e con
Ester Anzalone, Valentina Bardi, Cosimo Coltraro,
Fulvio D’Angelo, Massimo Leggio, Leonardo Marino,
Margherita Mignemi, Rosario Minardi,
Stefania Nicolosi, Giampaolo Romania, Sergio Seminara

regia
Giuseppe Dipasquale

Premio degli Olimpici del Teatro promosso dall”ETI
Miglior spettacolo di drammaturgia contemporanea

Con Il birraio di Preston lo Stabile di Catania riprende e rinnova un allestimento di grande successo che al fascino del racconto camilleriano affianca l’avvincente regia di Giuseppe Dipasquale, coautore della riduzione e qui alla testa di un cast eccellente, che annovera Giulio Brogi, Mariella Lo Giudice, Pino Micol, Gian Paolo Poddighe.
Un piccolo paese siciliano, che nella topografia camilleriana è il solito Vigàta, durante la seconda metà dell’Ottocento. Sorge la necessità di inaugurare il nuovo teatro civico “Re d’Italia”. Il prefetto di Montelusa, paese distante qualche chilometro, ma odiato dagli abitanti di Vigata perché più importante e sede della Prefettura, si intestardisce di inaugurare la stagione lirica con un melodramma di Ricci di scarso valore.
In realtà nessuno vuole la rappresentazione di quell’opera. Ma il Prefetto obbliga addirittura a dimettersi ben due consigli di amministrazione del teatro pur di far passare quella che lui considera una doverosa educazione dei vigatesi all’Arte, al Sublime. I circoli culturali locali si disputano allora la decisione circa la scelta del titolo da rappresentare, ma il Prefetto Bortuzzi, cavalier dottor Eugenio, fiorentino, facendosi forte della sua autorità impone la propria volontà.

Si arriva quasi a una guerra civile tra le due fazioni…

Osserva il regista Giuseppe Dipasquale, direttore dello Stabile etneo “Come ormai sembra essere chiaro nello stile di Camilleri, il racconto parte da un fatto che vuole essere di per sé stupefacente, affabulatorio, misterioso e incantatore. Proprio come il c’era una volta dei bambini. E di un bambino si tratta: l’occhio innocente di un bimbo, per purezza nei confronti del mondo, per incontaminazione, per il suo essere “fanciullino” e il motore dell’azione. Ad esso è destinata, in apertura del romanzo, la scoperta dell’unica grande tragedia che incombe su Vigàta (le altre saranno come delle ipotragedie in questa contenute e da questa conseguenti). Ossia lo spaventoso incendio che nell’originale struttura narrativa costituisce l’inizio e al tempo stesso la conclusione del racconto”

Come ne La concessione del telefono, Camilleri parte da una vicenda storicamente documentata, che reinventa e rinvigorisce con la sua fantasia affabulatoria e la sua sperimentazione linguistica.

Drammaturgo di me stesso di Andrea Camilleri

II primo rapporto con il teatro data, nella mia vita, all”incirca dal 1949. Da questo momento in poi, si può dire, non ci siamo mai lasciati. Il movente fu un sentimento tipico di certa gio­ventù inquieta, tra la noia e la curiosità.

Del teatro già da subito mi attraeva lo sperimentalismo linguistico, più che quello teatrale. Per primo, posso dire, ho sperimentato nei teatri cosiddetti minori autori come Beckett e Adamov. Le altre mie regie teatrali, circa un centinaio, hanno spaziato su repertori diversi per prospettiva e storia.

Non ho scritto di teatro, come sarebbe sembrato normale, ma nel “67, volendo aprire un capitolo nuovo della mia creatività, scrissi il corso delle cose, che venne puntualmente rifiuta­to da dieci editori.

Oggi posso assistere a come il pubblico reagisce di fronte ad un drammaturgo di se stesso che ha già conosciuto come scrittore.

Prima di accettare l”ipotesi di una riduzione per il teatro di questa mia opera letteraria ho resistito un bel po”. Non capivo come fosse possibile (e ragionavo, è ovvio, da autore) trovare un contenitore spaziale, una griglia che supportasse, senza tradirlo, il racconto. Il colloquio avuto con Giuseppe Dipasquale ci ha fatto trovare la soluzione: una struttura drammaturgica che salvaguardasse la scomposizione temporale del romanzo, ma condotta in modo da loca­lizzare scenicamente il tutto in un luogo che fosse ad un tempo un teatro (quello, per esem­pio, dove poteva essere avvenuto l”incendio) e il luogo dell”azione del racconto.

Sono stato per lungo tempo un regista per non capire quante insidie si nascondono nella trasposizione scenica di un”opera letteraria. Ci sembra, questa volta, di avere fatto il possibile affinchè l”opera, lo spirito, l”ironia del romanzo siano state conservate. Per il resto non posso che essere d”accordo con quell”altro mio illustre conterraneo, quando diceva che l”opera dello scrittore finisce quando comincia quella del regista.