di Anton Pavlovič Čechov
traduzione di Paolo Magelli

con

Valentina Banci, Francesco Borchi, Valeria Cocco, Daniel Dwerryhouse, Corrado Giannetti,Elisa Cecilia Langone, Mauro Malinverno, Fabio Mascagni, Paolo Meloni, Silvia Piovan, Sara Zanobbio, Luigi Tontoranelli

drammaturgia Željka Udovičić

scene Lorenzo Banci

costumi Leo Kulas

musiche Arturo Annecchino

luci Roberto Innocenti

regia Paolo Magelli

Teatro Metastasio Stabile della Toscana

Teatro Stabile della Sardegna

Sono mille i modi di affrontare “Il Giardino dei ciliegi” e cento volte di più i modi di parlarne.
Eppure la voglia di realizzare questo testo non cessa mai.

Risboccia dentro l’anima, proprio come il fiore della visciola.

È la terza volta che metto in scena Il Giardino e mi pare di non averlo mai fatto.

E Čechov pare essere il campione della trasformazione: ti parla sempre in modo diverso.

Così, dodici (o tredici?) anni dopo, eccomi di nuovo di fronte a questo amore.

L’ambientazione è qui una scena completamente vuota, animata – a tratti – dalla magia del mio scenografo Lorenzo Banci, uno dei migliori pittori italiani della nuova generazione.

La visciola è l’albero che nella sua piena fioritura rimane intatto solo per alcuni secondi.

Questo miracolo di rara bellezza dura poco più di mezzo minuto…

Poi i petali cominciano a cadere e l’immagine della perfezione scompare, lasciando il posto a rami spelacchiati e ad un cimitero di petali. L’allegoria della fragilità della vita, della sua inesorabile staticità abbarbicata in un mondo che tragicomicamente ci consente solo di avvizzire e cadere dal ramo dal quale siamo spuntati, il viaggio dalla bellezza alla deturpazione fisica e spirituale, la velocità con la quale le nostre “culture” – da quella “di classe”, filosofica e artistica, a quella “pragmatica” – si perdono nella storia: sono questi i temi che si ripetono senza fine ne “Il Giardino dei ciliegi”. Certo Čechov lo fa prendendosi in giro e utilizzando un’ironia comica e dolorosa che ci serve sulla scena, come in nessun altro testo e che ci costringe a “riviaggiare” con cattiveria dentro la nostra vita. La casa di Ljuba è il Teatro e il suo passato è “il giardino”: la nostra memoria, la vita che se ne è andata irrimediabilmente. L’assurdità dell’inarrestabilità del tempo rende tutto tragicamente comico. Le geometrie che disegnano tutti gli incontri dei personaggi, descrivono senza pietà una serie di crudeli, ridicoli fallimenti.

Dov’è l’amore? Perché si vive? E la bellezza non è forse solo nei ricordi?

Sono le domande assillanti che ci riempiono la testa, trasformandosi in una sorta di ritornello minimalista e ossessionante. Ho trovato l’incontro di lavoro fra le due compagnie, quella del Teatro Stabile della Toscana e quella del Teatro Stabile di Sardegna, esaltante.

E lo dico con la responsabilità di chi ha ormai centinaia di ore di prove sulle spalle…

Paolo Magelli