La favola nera di Esther H. di e con Francesca Falchi
installazioni Fabiola Ledda
costumi Edith Maria Delle Monache
audio e luci Gianni Erbì
scenotecnica Rossano Orrù
musiche originali Ennio Atzeni
foto di scena Pierpaolo Fusciani
regia di Gianpietro Orrù
evento speciale per la
Giornata della Memoria 2011
Fueddu e Gestu
Esther scrive la sua favola a lettere fitte, come un codice cifrato segreto dell’anima che un giorno si rivelerà al mondo. Esther sa che il cielo non sarà più lo stesso. Che nuvole di cenere umana scorreranno in esso, solcato da fili spinati che lo lacerano invisibilmente. Esther sa che il lupo non si fermerà finché non li avrà annientati tutti. Esther parla ad Etty perché Etty conosce la verità. La verità sta oltre il grigio dei corpi ammassati, il nero dei vagoni -bestiame, il bianco delle ossa tese sotto la carne sfinita. La verità sta oltre. Etty Hillesum lo sa. Esther H. lo sa. La verità è vivere cantando fino alla morte, che coglie ciò che vuoi, che accoglie ciò chi sei, che raccoglie ciò che hai, anche l’ultimo petalo di te.
Il lupo e il cielo spinato. La favola nera di Esther H. racconta la storia di Etty/Esther Hillesum, nata nel 1914 a Middelburg da una famiglia della borghesia intellettuale ebraica e morta ad Auschwitz nel novembre del 1943. Il suo diario, fortunosamente scampato allo sterminio della famiglia (ad Auschwitz persero la vita anche i genitori ed il fratello Mischa) passato di mano in mano, venne pubblicato nel 1981 riscuotendo un immenso successo paragonabile a quello che accolse il Diario di Anna Frank.
L’autrice del testo è partita dal Diario originale dando vita ad un monologo che ripercorre, mediante una scrittura in prosa poetica, gli anni tra il 1941 ed il 1943: e cioè l’anno in cui Etty raggiunge una nuova coscienza di sé e della sua missione nel mondo e l’anno in cui va incontro alla morte “cantando”.
La figura di Etty Hillesum è straordinariamente umana: nel suo ricercare/ricreare se stessa sulla terra, si libra in alto, oltre quel cielo che durante la permanenza nel campo di prigionia a Westerbork è precluso al suo sguardo ma che sente sempre e comunque suo, ovunque si trovi; nel suo essere il proprio “Dio”, laico e religioso insieme, in un continuo confronto con la propria materiale spiritualità /spirituale materialità che le permette di unire se stessa al mondo nelle braccia del “Divino”; nel suo voler essere sempre e comunque un essere umano, sospeso tra bene e male, tra scelte e imposizioni, tra essere e divenire.