di Carlo Goldoni

 

con

Elena Bucci, Marco Sgrosso, Daniela Alfonso,

Maurizio Cardillo, Gaetano Colella,

Nicoletta Fabbri, Roberto Marinelli

 

progetto Elena Bucci e Marco Sgrosso

disegno luci Maurizio Viani

costumi Marta Benini

suono Raffaele Bassetti

parrucche Denia Donati

direttore di scena Giovanni Macis, Viviana Rella

assistenti all’allestimento Alessandro Sanmartin, Filippo Pagotto,

Giovanna Randi

foto Tommaso Le Pera

 

regia Elena Bucci

 

CTB Teatro Stabile di Brescia

in collaborazione con Le Belle Bandiere

 

L’enorme fortuna di questo testo, studiato nelle scuole e messo in scena da moltissime compagnie, rischia di rendere muti. Possiamo però raccontare di quanto ci siamo divertiti a metterlo in scena, ritrovando le radici della più lucida commedia all’italiana del ‘900, spiando, attraverso un Goldoni che di certo ne è stato un avido testimone oculare, i segreti dei comici dell’Arte, dei quali sappiamo poco o nulla.

 

Abbiamo provato ad uscire dalla strada comoda della corretta dizione italiana per avventurarci nelle consapevoli sporcature del dialetto, che hanno immediatamente reso più concrete le battute e più vive le situazioni. Di certo, quando scriveva Goldoni, l’italiano era ancora più colorato di ora.

 

La scenografia è in gran parte evocata dalle luci di Maurizio Viani, che trasformano un mutevole ma semplice tavolo in una locanda, in una stireria, in una sala d’attesa del crollo di un mondo e del suo modo di vivere, in un vento forte che distrugge e ridimensiona i sogni di libertà e felicità di tutti i personaggi.

 

L’uso delle ombre invece, senza osare avvicinarsi ai maestri di quest’arte, è per noi nostalgia, mistero, medianica vicinanza con un mondo lontano del quale ci restano immagini, documenti, dipinti, opere, ma che non possiamo più sentire nella sua complessità.

Il suono accompagna lo scorrere delle battute e le pause dei cambi scena come fosse anch’esso scenografia, evocando ambienti opposti a quelli che vediamo, amplificando le stanze e moltiplicando gli attori. Ci suggerisce lo scricchiolio di una grande nave alla deriva, che forse è anche il nostro mondo d’Occidente.

Le ombre e i suoni denunciano la nostra temporale distanza e la nostra umana vicinanza.

 

Ancora oggi, un’energica rilettura di questo testo ce ne fa comprendere la fortuna e la perplessità del pubblico che lo vide in scena la prima volta.

Il suo meccanismo perfetto, che muove a tratti la commozione pur facendola brillare tra le risate, non dà alcuna soluzione, ma pone continue domande.

Perché una donna non può realizzare il suo desiderio di autonomia fondandosi sulla sua capacità lavorativa e sull’indipendenza dei sentimenti?

Sono proprio tanto diverse le donne dagli uomini, sarà sempre guerra tra loro?

Quanto ancora durerà l’illusione di una felicità costruita sulla ricchezza e sul benessere?

Cosa significa accogliere davvero i viaggiatori del mondo?

Svelare le illusioni d’amore ci rende più forti e felici o ci consegna ad un’inestinguibile nostalgia? E quanto ci protegge dal dolore?

Quanto osservare con spietata ironia i limiti nostri ed altrui ci aiuta a perdonare e ad accettare?

Quanto abbiamo perduto sacrificando una visione del mondo al femminile a favore di una visione del mondo al maschile?

 

Con intelligenza, civetteria e determinazione, Mirandolina intesse una sottile trama di gesti che confortano grandi paure attraverso la soddisfazione di semplici bisogni quotidiani, nell’illusione di poter ricreare un ordine del mondo a partire dal luogo da lei animato e abitato. Il suo servire ha la dignità e l’incedere di una regina senza titoli, tranne quello che le deriva dalla coscienza della sua capacità imprenditoriale e dallo sguardo attento e libero su quanto la circonda.

E l’ostinata, lucidissima, quasi tenera misoginia del Cavaliere è destinata a sgretolarsi per celebrare il trionfo di un’affascinante donna d’affari la cui grazia è freddo mestiere e che non riesce a salvare il suo sogno di libertà dalle necessità della reputazione e dell’interesse. Si respira la smisurata solitudine di personaggi in balIa delle proprie ossessioni, non soltanto quella volontaria e misantropa del Cavaliere, ma anche quelle del Marchese e del Conte, amici-nemici-rivali pronti ad improvvisi e fatui cambi di alleanze, o quella attonita di Fabrizio, la cui cieca abnegazione alla padrona avrà per premio un matrimonio senza amore. Con le comiche Deianira ed Ortensia poi – scivolate per ingenuità o disgrazia ad interpretare una femminilità schiava ed interessata – irrompe nell’intreccio l’ombra fascinosa del grande teatro guitto che Goldoni volle combattere, il teatro delle maschere e dello strapotere degli attori, delle finzioni esagerate e della miseria.

 

Da una parte vediamo il mondo sicuro del benessere, dall’altro quello rischioso dell’avventura fuori dai canoni, ma entrambi stanno facendo lo stesso viaggio, su una grande nave che scricchiola e sempre più sbanda, sia essa la storia o la vita.

Nonostante la sua fama di ‘riformatore’ del teatro, nonostante i suoi inviti a guardarci dalle lusinghe d’amore, il signor Goldoni, volente o nolente, ci consegna un’opera dalla quale traspaiono insieme tutte le umane complesse debolezze e la disperata e anarchica vitalità del mondo della commedia dell’arte, e lo sguardo dell’autore, che pare condannarle o giudicarle, invece le abbraccia quasi silenzioso, con una lacrima di incanto che non vuole scendere né asciugarsi.