di William Shakespeare

Traduzione di Alessandro Serpieri
Compagnia Lavia Anagni

scene Alessandro Camera
costumi Andrea Viotti
musiche Giordano Còrapi
luci Pietro Sperduti
foto di scena Pino Le Pera

con
Gabriele Lavia

e con
Giovanna Di Rauso, Maurizio Lombardi,
Biagio Forestieri, Patrizio Cigliano,
Mario Pietramale, Alessandro Parise,
Michele Demarca, Daniel Dwerryhouse,
Fabrizio Vona, Andrea Macaluso,
Mauro Celaia, Giorgia Sinicorni,
Chiara Degani, Giulia Galiani

regia
Gabriele Lavia

Davanti dietro la scena del “Palcoscenico del Mondo”. Mi pare che queste parole raccontino bene l’idea dello spettacolo. Una “parte del tutto” di un camerino, col suo specchio, il suo lavandino, l’attaccapanni, le sedie, sulla sinistra del proscenio. Sulla destra, una scala, casse, bauli di trovarobato e sartoria. Dietro il sipario, uno spazio vuoto che, di scena in scena, viene occupato dagli oggetti che servono al modo del nostro racconto, un letto, uno specchio, un tavolo, le tombe di un cimitero, un muro bombardato in una delle guerre del nostro mondo. E poi il Palcoscenico del teatro, diverso in ogni città: Roma, Torino, Pisa, Firenze, Venezia, Catania, Ravenna, Piacenza, Savona…. sempre palcoscenici diversi! Dannazione del Teatrante! (Ci vorrebbe una legge che imponesse la costruzione di palcoscenici tutti uguali, per poter montare lo spettacolo sempre allo stesso modo!)

“La vita è un’ombra che cammina, un povero attore…”. Così ho pensato a un attore che vive la sua “Storia raccontata da un idiota” sulla scena e dietro le quinte, divorato dall’angoscia di non essere mai nel “posto che gli spetta”, di sentirsi fuori ruolo in ogni spettacolo. Nella piccola e maldestra recita del Potere, quest’attore si trucca, si mette le scarpe coi rialzi, indossa doppio-petti esasperati, sfoggia vuoti sorrisi da marionetta, si affanna come un filodrammatico senza mestiere, con “la paura del debuttante, senza nessuna esperienza” e, nella sua crudeltà, fa crudelmente pena. E forse ci ricorda figure del Palcoscenico della Nostra Vita. Come quei sorridenti mascalzoni di cui parla Amleto quando allude allo zio diventato re.

L’opera di Shakespeare ha come tema di fondo il grande mistero della filosofia: l’Essere. Il Non Essere di Amleto, l’illusione dell’Essere di Otello, la rinuncia dell’Essere di Lear, l’incertezza dell’Essere di Macbeth.

“Essere così è niente se non si è qualcosa con certezza”. Cosa ci può essere di più lontano da noi, uomini di oggi, conficcati nel pensiero scientifico e tecnologico?

Perciò è sempre una sfida occuparsi di “tali faccende”. Il Niente, il NON dell’ente, cioè il NON dell’essente, cioè l’Essere. L’unico modo, dunque, dell’Essere con certezza è Non Essere? Ma a chi le raccontiamo queste storie? Non sembrerà “il racconto di un idiota”?

“Domani, domani, domani striscia con passo meschino…”. Chi può sapere ormai che Shakespeare parla del tempo eterno circolare che l’uomo ha tagliato e lo ha fatto diventare tempo lineare, misurabile, fatto di “Domani e domani e domani…” che conducono alla morte? Chi può interessarsi alla fine di un cosmo simbolico? Alla fine della Metafisica?

Eppure oggi siamo, senza pensarci, co-involti e tra-volti dalla fine della Metafisica che è la nostra Post-modernità.

E dunque la grande metafora del mondo come Teatro che già appare nel Medioevo con Erasmo: “Tutta quanta la vita non è che una commedia dove ognuno recita con maschere diverse e continua nella parte, finchè il Grande Direttore di Scena (Dio) gli fa lasciare il palcoscenico. E piace a costui condurre, a volte, sulla stessa scena, lo stesso attore con diverse maschere e trasformare in accattone colui che prima indossava la porpora regale…”; con Shakespeare la storia raccontata dal grande Drammaturgo-direttore di scena-Dio, di Erasmo, diventa il racconto “raccontato da un idiota…”.

Forse il punto più alto del pessimismo umano, la sua più alta bestemmia.

Forse ci siamo tutti dentro.

Gabriele Lavia