Storia di un corpo
di Daniel Pennac

con Giuseppe Cederna

scene Marcello Chiarenza
luci Andrea Violato
assistente alla scenografia Lorenza Gioberti

elaborazioni musicali Paolo Silvestri
progetto fonico Luca Nasciuti
fonico Francesco Dina

attrezzista Anna Funtò
abito di scena Dresscode di Fabio Porta

adattamento e regia Giorgio Gallione

produzione Produzioni Fuorivia – Agidi
residenza artistica con il sostegno di Passo Nord

“Storia di un corpo” è il viaggio di una vita, uno straordinario percorso dentro un’esistenza. Un tenero e sorprendente regalo post mortem, in forma di diario, che un padre fa alla figlia adorata. Una confessione e insieme un’analisi, fisica ed emozionale, che il nostro io narrante ha tenuto dall’età di dodici anni fino agli ultimi giorni della sua vita.
Una narrazione fluviale dove, attraverso le sue scoperte e le sue mutazioni, il corpo del protagonista prende progressivamente la scena, accompagnandoci in un mondo che si svela attraverso i sensi, diremmo quasi l’epidermide: la voce anaffettiva della madre, gli abbracci silenziosi del padre, l’odore accogliente dell’amata tata, il dolore bruciante di una ferita, il sapore dei baci della donna amata. Pagine e pagine di un diario intimo dove, raccontando di muscoli felici, di orgasmi potenti, di denti che fanno male o di meravigliose avventure tra sonno e veglia si narra una vicenda unica ed insieme universale: lo sviluppo, la crescita e la rovina della sola esperienza che ci fa davvero tutti uguali, quella di noi grandiosi e vulnerabili esseri umani.
E il fatto che questo avvenga attraverso la scrittura e la narrazione (l’uomo è la sola creatura narrante) dà la possibilità a Pennac di accompagnarci alla scoperta di quel giardino segreto che è il nostro corpo, di un organismo che è insieme memoria, testimonianza e lascito.
Pennac racconta della sanguinolenta battaglia contro un polipo nasale o della paralizzante scoperta del corpo femminile, dell’“infamia” della masturbazione o del miracolo della nascita, della tirannia delle flatulenze o della tragedia della morte sempre e continuamente tra sorpresa e sorriso, tra fatalità e miracolo, grandezze e miseria. E qui la “voce” di Pennac si fa grande teatro, smette di essere libro e si trasforma in epica narrazione orale dove il diario di un corpo diventa una storia “che merita di essere raccontata”.

Note di regia
1991: entro alla Libreria Feltrinelli di Genova. Stanno modificando la posizione di libri e collane. Struzzi, Istrici, Elefanti migrano in nuovi scaffali. Uno dei librai dribbla audacemente una piramide di Canguri, scontra un banco di Delfini, inciampa, cade.
I volumi rimbalzano a terra, io cerco di aiutare, ne raccolgo un paio. Sulla quarta di copertina intravedo un commento di Stefano Benni, leggo e intanto aiuto a riordinare. “Sono arrivati oggi”, mi dice il libraio. Annuisco e intanto fotografo con gli occhi alcune parole: capro espiatorio, cane epilettico, Babbo Natale assassino. Volto il libro e vedo il titolo “Il paradiso degli orchi” di Daniel Pennac. Torno alla quarta, leggo “figlio di Chandler e Queneau”. Molti indizi fanno una prova direbbe Philip Marlowe, e allora il libro è mio, lo compro.
Da allora la parola di Pennac mi accompagna. È diventata una costante del mio percorso teatrale. Di e con Daniel ho esplorato “Malaussene” e “L’occhio del lupo”, “Grazie” e “La lunga notte del dottor Galvan”, “Diario di un somaro” e pure un paio di spettacoli per ragazzi. Perché quella di Pennac non è solo scrittura, ma “voce”, narrazione epica e bizzarra assieme. Un personalissimo, perenne esercizio di stile che comprende commozione e sorriso, ironia, gioco, paradosso e malinconia. Una antologia del teatrabile ricchissima e sorprendente.
La letteratura di Pennac è teatro in potenza. Per me regista e adattatore, un “bosco narrativo” quasi inesauribile col quale continuo a confrontarmi con felicità ed entusiasmo. Oggi tocca a “Storia di un corpo”. Un viaggio in un’esistenza che si specchia in esperienze e sensazioni che partono dalla carne, scoperta per scoperta, sorpresa per sorpresa. Il corpo come un meraviglioso contenitore di storie e racconti che in palcoscenico acquistano ancor più forza, senso e universalità”.
Giorgio Gallione