di Luigi Pirandello

adattamento teatrale di Giuseppe Manfridi

 

con

Fulvio Cauteruccio, Monica Bauco, Laura Bandelloni

 

voci off Irene Barbugli, Roberto Gioffrè, Riccardo Naldini,

Carlo Salvador, Tommaso Taddei

ideazione scenica Giancarlo Cauteruccio

costumi Massimo Bevilacqua

scena e luci Loris Giancola

elaborazione video Stefano Fomasi

foto di scena Stefano Ridolfi

 

regia Giancarlo Cauteruccio

 

Compagnia teatrale KRYPTON

in collaborazione con Scandicci Cultura

Teatro Studio di Scandicci

 

Con Uno, nessuno e centomila, Cauteruccio affronta per la prima volta la scrittura pirandelliana, scegliendo un romanzo. L’adattamento teatrale è di Giuseppe Manfridi e l’interprete principale è Fulvio Cauteruccio nel ruolo di Vitangelo Moscarda, affiancato da Monica Bauco, l’amante Anna Rosa, e dalla giovane attrice Laura Bandelloni, la moglie Dida; gli altri ruoli sono presenze incorporee, le voci off di Irene Barbugli, Roberto Gioffré, Riccardo Naldini, Carlo Salvador, Tommaso Taddei.

L’idea registica evidenzia la tematica del fallimento esistenziale e Cauteruccio vira la messinscena verso Samuel Beckett, l’autore-guida del suo teatro negli ultimi venti anni.

La scena, firmata da Loris Giancola, è un luogo metafisico abitato da voci ed oggetti.

Fulvio Cauteruccio si muove in un labirinto di sedie dislocate su una scala-altare in cima a cui troneggia, immersa in un buco fino alla vita, il suo alter ego, Anna Rosa, molto prossima alla Winnie di Giorni felici. Dida è una giovane donna che Manfridi descrive come un “simulacro di erotica mondanità”. La discesa nel profondo del protagonista, la sua lucida follia, il suo parlare pensato lo conducono alla totale dissipazione di sé, e l’immagine finale dello spettacolo lo vede interrato fino al collo. Ad officiare tutto il rito c’è uno specchio, occhio indagatore, che diviene simbolo dell’indeterminatezza della realtà. La storia dell’ ”umoristico antieroe della modernità”, viaggio amaro ed ironico dentro l’animo umano e la pena di vivere, da molti definito il “romanzo della solitudine dell’uomo”, fornisce l’occasione ai fratelli Cauteruccio di far convergere in quest’opera tutta la visionarietà, la fisicità, il rapporto tra corpo e spazio che negli anni hanno analizzato e sviluppato nelle più diverse direzioni, ricomponendo in qualche modo la coppia di Hamm e Clov di Finale di partita.

 

Appunti per un adattamento teatrale di ‘Uno, nessuno e centomila’

‘Uno, nessuno e centomila’, romanzo umoristico… nell’accezione pirandelliana, certo, comunque umoristico. Un uomo dichiara, in apertura, la propria alienazione. Si dice sgretolato, annullato, nonché artefice del suo annientamento. E non si può non credergli. Ovunque, gli altri, senza tanti eufemismi lo chiamano ‘pazzo!’ e la sua follia costerna la cittadinanza pettegola di Richieri disabituata alle metamorfosi improvvise e, tantomeno, agli improvvisi declini. Nulla di più asociale di un declino improvviso! L’uomo raccontando di sé – a noi lettori del libro, alla sussultante e vulnerabile Anna Rosa nell’adattamento scenico – afferma che la catastrofe destinata a sradicarlo dal più borghese dei mènages ebbe inizio quando la moglie gli fece notare un’imperfezione del suo naso. Di qui il calvario autoconoscitivo, e autodistruttivo, di Moscarda. Una discesa nel profondo che finisce col portarlo alla totale dissipazione di sé. Ebbene, sapere già in partenza quale il tragico epilogo di un percorso dall’avvio tanto ameno non può non irradiare un clima paradossale su tutto il dipanarsi della storia ancorandola, al contempo, ai ritmi di una tensione fatale. Ma quale la tesi letale che devasta il protagonista? Che nessuno esiste se non nell’immagine che gli altri, ovvero altri nessuno, si formano di lui. E’ un gioco di specchi che riflettono specchi. L’io è un’illusione. A crederci per davvero c’è da spararsi. E difatti qualcuno spara. Anzi: qualcuna. Anna Rosa, appunto. La fanciulla a cui Moscarda confiderà ciò che ha compreso. Ma non come astratta teoria, bensì come una sequela di fatti paurosamente dimostrativi. E Anna Rosa, nella commedia, sarà una sorta di doppio che accompagnerà il protagonista nello scandire, a ritroso, le stazioni della sua Via Crucis. Allieva vibrante e malleabile subirà l’abbaglio di quelle lezioni quasi al limite del plagio e sino a giungere, da ultimo, a un drammatico gesto di ribellione. Attorno, l’umanità tipica dell’allegorica provincia pirandelliana: mogli elettrizzate dalle convenzioni sociali, padri e suoceri roboanti, compari addestrati a fare i propri interessi dietro finzioni d’amicizia e figurine varie immerse, come le altre, nel liquido amniotico di un chiacchiericcio incessante, dove ebetitudine e malalingua determinano la pubblica opinione miscelando i codici del buon senso con l’ipocrisia e la calunnia. Se nonché, nella presente riscrittura, tutto è incorporato in lui, in Moscarda, come un borbottio polifonico che ripete all’infinito, nella memoria di un folle, il rituale della salita al Golgota. Solo la moglie Dida, oltre Anna Rosa, si manifesterà a tratti concreta, in carne ossa. Simulacro di erotica mondanità. Il resto, prenderà forma in quel teatro delle profondità che ha il suo palcoscenico nella coscienza stessa di Moscarda. Il contagio del malessere è, dunque, la chiave che ho scelto per penetrare in questo autentico giacimento del pensiero pirandelliano fornito di un filo di Arianna capace di non farmi smarrire in cotanto labirinto mentale. Moscarda, difatti, confidandosi con Anna Rosa – forse in virtù di una percepita affinità elettiva – insemina inquietudine a piene mani nel trepidante animo della ragazza spingendola verso convinzioni estreme, insopportabili.

Giuseppe Manfridi